Bibliografia Vichiana I

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SCIENZA NUOVA SECONDA

servum tuum, Domine», furono i motti che il Vico pose in calce a codeste Correzioni terze ; dalle quali parole si dovrebbe desumere che quel perenne non soltanto emendatore ma tormentatore di se medesimo fosse una buona volta soddisfatto della sua fatica. Ma che non fosse, è provato dal fatto che non più tardi del 1732 o ’33 egli prese a stendere una nuova redazione dell’ opera, condotta col medesimo metodo della precedente, ossia riempiendo in un altro codice autografo, entrato nella Nazionale di Napoli sin dal 1818 e segnato XIII. H. 59, settanta fogli o centoquaranta pagine di Correzioni, miglioramenti e aggiunte, che, come le si designa oggi, si sarebbero dovute dire « quarte », ma che l’autore, che, con questa redazione, intendeva annullare la precedente, chiamò anche questa volta « terze », aggiungendo anche questa volta ch’erano « poste insieme con le prime e seconde, e tutte coordinate per incorporarsi nella terza impressione della Scienza nuova ». Nemmeno questa redazione potè vedere la luce immediatamente : il che significava che tra non molto, come accadde in anno incerto, ma su per giù intorno al 1735, il Vico si sarebbe accinto a lavorarne un’ altra. Che anzi questa volta, che fu davvero 1’ ultima, egli non si contentò di stendere le solite correzioni, miglioramenti e aggiunte, ma si diè a riscrivere da cima a fondo tutta 1’ opera, salvo poi, in parecchie riprese, e lungo per lo meno un settennio (1736-1743), a consacrarvi un lavorio così intenso di lima che, non bastando l’interlineo e i margini, dovè ricorrere talora anche a foglietti intercalati. Nel codice che ci ha serbato l’autografo di codesta redazione definitiva e che, comprendente trecentoventitré fogli (646 pagine), fu venduto anch’esso da Gennaro Vico alla famiglia Frammarino, per passare poi anch’ esso, intorno al 1862, nella Nazionale di Napoli, ove reca la segnatura XIII. D. 79 èda riconoscere quello adoperato nella stampa dell’edizione del 1744, come mostrano gli ancora visibili segni fatti a matita dai « pacchettisti » ogni volta che interrompessero la composizione tipografica. Pertanto risulta priva d’ogni fondamento la favola diffusa in Napoli, ivi raccolta da Pietro de Angelis (v. quaggiù parte seconda, sezione quarta, capitolo primo, paragrafo Vili), e dal De Angelis comunicata poi in Parigi al Michelet, che la raccontò come fatto certo nel Discours che precede la sua traduzione francese dell’ opera (edizione originale del 1827, p. lix) : la favola, cioè, che Gen-