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l’esca per catturare la disponibilità poetica del pubblico anni Ottanta. Nell’Europa del teatro di classe, anche Antoine Vitéz, incantevole demiurgo alla frencese, predica da anni la sensualità conoscitiva. Ricorda a questo proposito Renzo Tian, che degli spettacoli di Vitéz è assiduo recensore: C’è una messinscena (tra le meno note, anche se in Italia s’è potuta vedere otto anni fa al Ferstival di Spoleto) dove la presenza della sensualità si esprime attraverso una metafora complessa e raffinata: è la ’Bérénice’ di Racine, dove il regista ci prende al petto con la strepitosa novità del personaggio di Tito. L’imperatore prigioniero della ragion di Stato è per Vitéz un ragazzo poco più che adolescente, di teneri lineamenti e di timidi comportamenti, che si aggira nella reggia vestito d’una candida tunica, tenendo in mano una rosa dal lungo stelo. L'androgino trasognato e vagante è la vera, donna’della tragedia, secondo una teoria del’travesti’ come metafora teatrale per eccellenza, che Vitéz ha più volte espresso. Non il ’travesti’ pratico del trucco vistoso e degli abiti a sesso invertito, ma quello teorico dello scambio di segni altra-

verso la parola e la situazione. Il sesso parla per antifrasi: ’Tito è una donna, Celestina è un uomo’ ha detto una volta Vitéz. L’impero dei sensi va sostituendo, in un ricongiungimento ideale con le forme classiche della bellezza, l’apologià del sesso tridimensionale, consumato in palcoscenico con alibi artistico. Finiscono le etichette, le attribuzioni di amoralità, le tensioni allo shock da nudo integrale. La lezione viscontiana toma di moda senza essere, presso gli esteti, mai tramontata. Il teatro di regia, quello autentico, superstite, riaffronta il problema della comunicazione sensitiva, anche in spettacoli d’assoluta evasione, d’alto consumo, come il non riuscitissimo, ma esteticamente sfizioso Cabaret di Jerome Savary. Il pubblico che vede vagare, nell’insidiosissimo Barry Lyndon di Aglioti, i bei corpi disvelati degli attori; che assiste ai riti erotici dei più celebri libertini della Storia e della Letteratura, evocati in spirito e carne; che vien trascinato nella spirale velenosa e profumata della Seduzione fine a se stessa; ebbene questo pubblico consuma eros, ma esce edificato, purificato dalla Bellezza. £' uno stato di

paganesimo che ha i suoi dei, una condizione di grazia non priva di religiosità - dice Aglioti - l'armonia delle forme può diventare il contenuto di una operazione estetica. E risulta eversiva quanto l’aspra denuncia politica, quanto un grido di protesta lacerato e spoglio, che sgorghi dalla gola di un mostro. Pochi mesi fa, a Roma, s’è vista in scena un’altra esteta di gran classe, allieva prediletta di Pina Bausch, quella Metschild Grossmann che nasconde grazie da pierrot lunaire dentro una voce maschile gravida di dolori e di sconfitte. Ella si mostra, in palcoscenico, con l’afflitta bellezza deli-androgino, senza sapere, apparentemente, quali siano i tempi e i ritmi della sensualità. Eppure, nulla risulta più soggiogante della sua nudità quasi patetica, asessuata, della sua biancheria da monaca ingrigita. E chi non ricorda il Kemp di biacca e d’anilina di Flowers, i ragazzi nudi di quei suoi irripetuti paradisi genetiani? Ha proprio ragione il Barry Lyndon di Aglioti: chi ha il coraggio di redimersi dalla disarmonia, gridi a voce alta (magari recuperando la voce e la lezione di maestri ancora gio-

vani, come Strehler e Brook) che il teatro, più d’ogni altra dimensione, è luogo dei sensi. □ Rita Sala, Il Messaggero, 21 marzo, 1988.

Barry Lyndon sotto mille luci Alla figura di Barry Lyndon, l’awenturiero protagonista del romanzo di William Makepeace Thackeray e del film che, una dozzina d’anni fa, ne trasse Stanley Kubrick, se ne sovrappongono qui altre: il Casanova stanco ma non sazio d’un noto racconto di Schnitzler, il Peer Gynt di Ibsen (ancora due esemplari di esuli giramondo), ma anche, di sguincio, personaggi come il marchese De Sade, il romanziere Gustave Flaubert (un trasgressore tutto mentale) e perfino il presidente John Kennedy, proposto sotto l’aspetto del playboy, о co-

munque dell’amante di Marilyn Monroe. Abbiamo detto all’inizio figura, ma avremmo dovuto scrivere, più propriamente, immagine. Poiché in questo primo spettacolo che Antonello Aglioti, per vari lustri sodale di Merné Periini, firma da solo, di teatro immagine pur sempre è questione: dove le accensioni visive prevalgono, di gran lunga, sul tessuto verbale, fitto di rimandi e ricalchi, ma raggelato, nell’insieme, in modi saggisticoletterari che stentano a prender corpo sulla scena. Si aggiunga la scarsa dimestichezza che, con la parola, manifestano chi più chi meno gli attori, sebbene dal lato muliebre le cose vadano meglio. Ciò cui assistiamo è del resto, nelle sembianze della fantasticheria о del sogno, uno scontro fra sessi, maschile e femminile, inteso anche come scontro di poteri. Luogo ideale del conflitto, un Settecento già peraltro riguardato a distanza in Thackeray (che vive e opera nel secolo successivo) e in maggior misura nello Schnitzler del Ritorno di Casanova (che si data al 1917). Un mito, insomma, nel quale la nordica leggenda senza tem-

po del Peer Gynt ibseniano rientra a fatica, о non rientra per nulla. Quanto alla duplice ferale storia di Marilyn о di Kennedy (evocata anche attraverso cronache televisive d’epoca e gigantografie), è quella che dovrebbe richiamarci, di là dalla finzione artistica, a una tragica realtà esistenziale de appena ieri. Eppure, chissà come, il suiddio di Emma Bovary, narrato dalla ottocentesca penna flaubertiana ci commuove di più e anzi offre lo spunto a uno dei momenti riusciti. In principio la rappresentazione echeggia da presso il modello Kubrick (dei frammenti ne sono mostrati su piccoli schermi), quindi se ne distacca, e con maggior libertà via via che lo spazio scenico si dilata e si articola, in larghezza e in profondità, accrescendo il suo potenziale illusionistico mediante giochi di specchi e, soprattutto, di lud. Sotto tale profilo, si conseguono risultati di grande bellezza, ai limiti dello stucchevole. Rischio che Aglioti deve avere avvertito, se ha voluto a un certo punto spezzare l’incanto con la simulazione di una lite fra il regista (denotato dalla sole voce) e una indocile e inesperta interprete. Situazione quasi piran-

delliana, ma subito riassorbita in un disegno estetico (o estetizzante) di impronta tutta diversa, e che semmai (siamo in dima di anniversari) ha qualcosa di dannunziano. Le influenze più rilevabili vengono però dal cinema: evidente l’omaggio al Casanova di Fellini, ma quelle lotte e schermaglie fra uomini nudi riflettono pure una celebre sequenza di Donne in amore (di Ken Russell, da D. H. Lawrence, 1970). □ Aggeo Savioli, L’Unità, 3 marzo, 1988.

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