Bibliografia Vichiana I
IL VICO E IL SECOLO DECIMONONO
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titolo prendere il nome di « vichiano ». Ricorse la limitazione che egli aveva tentata del valore delle matematiche e delle scienze esatte, e la sua critica della concezione matematica e naturalistica della filosofia, nella critica del Jacobi al determinismo spinoziano [v. sopra p. 371] e in quella dello Hegel contro l’intelletto astratto; e, per le matematiche in particolare, fu (da Dugald Stewart e da altri) messo in chiaro che la loro forza non è nei postulati ma nelle definitiones (v. sopra p. 384], e le fictiones, di cui egli parlava, sono rientrate nella terminologia odierna dei gnoseologi di quella disciplina. La logica poetica o la scienza della fantasia divenne l’Estetica, così ansiosamente indagata dai filosofi, letterati e artisti tedeschi nel corso del Settecento, e alla quale il Kant faceva compiere un gran passo con la critica dell’intuizione come concetto confuso (che era la dottrina leibniziana), e un altro gran passo lo Schelling e lo Hegel, i quali, collocando l’arte tra le pure forme dello spirito, si riavvicinarono al Vico [v. già sopra p. 373], E il romanticismo (specie tedesco, ma anche, più o meno, quello degli altri paesi), in quanto si espresse in forme teoriche, fu vichiano, perché celebrazione della fantasia come originale potenza creatrice. Ricorsero le sue dottrine sul linguaggio, interpretato non più intellettualisticamente quale sistema artificioso di segni, ma come libera e poetica creazione dello spirito dallo Herder [v. già sopra pp. 367-68] e dallo Humboldt. La dottrina della religione e del mito, dopo che ebbe abbandonato l’allegorismo e la teoria della frode, riconobbe con Davide Hume che la religione è un processo naturale corrispondente agl’inizi della vita umana, tutti passione e immaginazione (v. sopra pp. 309-11]; con lo Heyne che il mito è un « sermo symbolicus », non prodotto da arbitrio ma da bisogno e povertà, dalla « sermonis egestas », la quale si esprime « per rerum iam tum notarum similitudines » ; con Ottofredo Mùller, che è impossibile intendere il mito senza rientrare nell’intimo deH’anìma umana, dove se ne scorge la necessità e la spontaneità. La religione non fu più guardata come qualcosa di estraneo o di nemico verso la filosofia, come stoltezza o inganno di gente furba alle spalle di gente semplice, ma, come il Vico voleva, quale filosofia rudimentale, onde tanto si trova nella metafisica ragionata quanto era già in qualche modo nella metafisica poetica o religiosa. Similmente poesia e storia non furono più tenute disgiunte o contrapposte, perché si combattessero a vicenda; e, come già uno dei grandi ispiratori della nuova letteratura tedesca, lo Hamann [v. sopra pp. 364-66], aveva ammonito e preveduto dicendo : «se la nostra poesia non vale, anche la nostra storia si farà più magra delle vacche di Faraone », un alito di poesia ravvivò la storiografia del secolo decimonono, la quale da incolore divenne pittoresca, da fredda, che era, acquistò calore e vita. La critica dell’utilitarismo degli Hobbes e dei Locke, e l’affermazione della coscienza morale come « spontaneo pudore » e « giudizio senza alcuna riflessione », si ripresentò bene armata nella Critica della ragion pratica, e la polemica contro l’atomismo sociale e il conseguente contrattualismo, nella Filosofia del diritto hegeliana. La libertà di coscienza e l’indifferentismo religioso, professati e inculcati dai pubblicisti del Settecento, fu negata come dottrina filosofica; e un popolo senza Dio sembrò allo Hegel, come già al Vico, introvabile nella storia ed esistente solo nelle panzane dei narratori di viaggi in paesi ignoti o poco noti. Continuando l’opera della Riforma, che il Vico non aveva potuta