Bibliografia Vichiana II

SPAVENTA - PALMIERI - PESSINA

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allora titolare di filosofia nell’Università, chiuse nel 184/, non è restato ricordo alcuno. Sicché primo scritto spaventiano nel quale s’incontri il nome del Nostro restano quegli Studi sulla filosofia di Hegel , pubblicati sullo scorcio del 1850 nella Rivista italiana di Torino. In essi premetteva che della storia del pensiero italiano furono « eroi e martiri i nostri filosofi » ; si mostrava severo contro coloro che mostravano avere dimenticato « i roghi di Giordano Bruno e di Giulio Vanini, la lunga prigionia di Tommaso Campanella, e l’umile pietra che nel tempio dei Gerolomini di Napoli ricopre le ceneri di Giovan Battista Vico, ultima luce del nostro mondo intellettuale » (pietra tombale, per altro, dietro cui non c’ è se non il muro) ; e concludeva che « veri discepoli di Bruno, di Vanini, di Campanella e di Vico » erano stati « Spinoza, Kant, Fichte, Schelling ed Hegel ». Sul Vico tornava nel 1855 nel recensire il Prospetto filosofico del Ventignano mentovato sopra (pp. 475-76). Senonché il lavoro in cui cominciò a discorrere del Nostro con più ampio respiro e a presentarlo, con più ragionata dimostrazione, come un precursore del Kant (v. sopra pp. 872-73), fu la prolusione recitata il 10 maggio 1860 nell’Università di Bologna, ov’era stato chiamato a insegnare storia della filosofia, e posta poi a stampa col titolo Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI fino ai nostro tempo. E ancora più a lungo si fermava sul Nostro quando, trasferito alla cattedra di filosofia nell’Università di Napoli, vi tenne, il 23 novembre 1861, la sua prima prolusione, intitolata Della nazionalità della filosofia , e nei giorni successivi la seconda e la sesta delle dieci lezioni storiche premesse al suo primo corso di logica, riunite, quella e queste, nel volume Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nell’Università di Napoli , 23 novembre-23 decembre 1861 (Napoli, Vitale, 1862). Garruli e battaglieri erano allora i cosiddetti giobertiani napoletani, i quali, ricondotti dalla tesi fondamentale del Primato (v. sopra p. 615) alla vichiana « antiquissima italorum sapientia », s’erano impadroniti di codesta forinola (come se mai il Vico non l’avesse rifiutata !), dandosi a fare tutti scrive il Gentile i « filosofi nazionali, intendendo la nazionalità, come l’aveva intesa il Gioberti, per un perenne svolgimento isolato dentro un campo chiuso e sequestrato da ogni commercio esteriore ». Il 16 novembre 1861 Luigi Palmieri (1807-96) quello stesso che prima del 1848 aveva denunziato lo Spaventa, e ora, tolto dalla cattedra di filosofia, ne aveva avuto altra di fisica terrestre, nel recitare la sua prolusione, aveva tenuto a ribadire una serie di fantasticherie esposte in un’altra prolusione di quattordici anni addietro : che «la filosofia pittagorica, nella varietà delle sue forme », rappresenta « la storia della filosofia veramente italiana » ; che Platone si deve dire « italogreco » ; che « la miglior parte della sapienza italiana » deriva « da queste origini » ; che, « accostandosi a questa scuola, Agostino, Tommaso, Anseimo, Bonaventura, Vico e Gioberti segnarono le grandi ère della speculazione italiana », ecc. ecc. E l’altro giobertiano (già galluppiano) Enrico Pessina (1828-1916), trasferito allora anche lui dall’ Università di Bologna alla cattedra di diritto e procedura penale presso l’Ateneo napoletano, asseriva in tutti i toni che la filosofia italiana è quella pitagorica : con che ripeteva anche lui ciò che aveva detto in uno scritto del 1847, nel quale gli era piaciuto « rappiccare » i due maggiori « astri della filosofia italiana », cioè il Galluppi e il Gioberti, « a quell’aurea catena che,