Bibliografia Vichiana II

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PESSINA - SPAVENTA

da Pitagora perpetuandosi insino al Vico, fu sempre il principio dinamico d’ogni maniera d’ incivilimento ». Si può immaginare l'impressione suscitata in un ambiente siffatto dalla prolusione spaventiana, la quale, negando alla filosofia ogni carattere di nazionalità (così come ogni carattere di nazionalità le aveva negato, nell’ultima fase del suo pensiero, il Nostro), inquadrava la filosofia italiana nel generale pensiero europeo, non senza presentare il Vico come « il vero precursore di tutta l’Alemagna ». Per altro, queste non erano se non le prime avvisaglie. 11 toro veniva afferrato per le corna quando, nella seconda delle anzidette prelezioni storiche, lo Spaventa passava alia critica del Liber metaphysicus. Perché allora ancora inedito, a lui era ignoto il passo delle Correzioni terze ( Opp IV, capov. 1292), nel quale il Nostro aveva esplicitamente rifiutato quel Liber, come affetto (diceva) da « una spezie di quella che noi qui chiamiamo 4 boria de’ dotti ’ », cioè da pregiudizi intellettualistici, aggiungendo che dalle « origini della lingua latina », si può trarre bensì una « antichissima sapienza », ma « non già riposta dell’ Italia », invece « volgare di tutto il mondo delle nazioni » : vale a dire non già la fantasticata antichissima filosofia italica, sì bene l’esistenza, in Italia e dappertutto, di una « sapienza poetica ». ossia di facoltà meramente intuitive, prevalenti, in aggregati sociali primitivi, su quelle intellettive, e alle quali appunto si deve la formazione di ciò che non solo nel latino, ma in tutte le lingue, è stato, è e sarà perenne atto creativo. Tuttavia lo Spaventa era troppo buon loico da non avvedersi che la confutazione più efficace dell’immaginaria antichissima filosofia italica desumibile dalle etimologie di alcune voci latine era stata già esibita implicitamente dal Vico stesso nell’atto medesimo che s’era fatto a esporre le sue nuove teorie sulla sapienza poetica, sugli universali fantastici e sull’origine alogica del linguaggio. Pertanto, non senza avvalersi anche di argomenti storico-filologici, nei quali pose a profitto altresì la Ròmische Geschichte del Mommsen, egli, seguito poi da tutti gl’interpreti intelligenti del Nostro, concludeva che la metafisica ragionata nel De antiquissima , lungi dall’essere quella degli antichi egizi, degli antichi estruschi e nemmeno dei pitagorici, era semplicemente la prima forma della personalissima metafisica del sei-settecentesco autore di quel libriccino. Alla Scienza nuova propriamente detta era consacrata poi la sesta delle prelezioni sopramentovate, la quale, nella sua maggior parte, ragionava quella che, come s’ è già posto in rilievo (p. 373), resta la maggiore scoperta storica dello Spaventa: essere già isnplicita nel capolavoro vichiano quella metafisica della mente, che prenderà poi forma corporea nella sintesi a priori kantiana. Riassumere quella serie non breve di profonde e non facili argomentazioni non sarebbe qui assolutamente possibile. Dovrà dunque bastare il ricordare che la mirabile analisi si conclude con l’osservare che nel Vico l’unità dello spirito « è un intuito profondo, una divinazione, una profezia, nata dalla seria e intima contemplazione del reale umano » ; che il Nostro è « la realtà umana, il positivo umano che parla a se stesso » ; è « il primo autore d’una psicologia de’ popoli », « una vera cometa tra i naturalisti e matematici del secolo decimottavo ». Accenni al Vico s’incontrano anche in qualcuno degli scritti posteriori. Per esempio, nel recensire nel 1872 la Vita di Giordano Bruno scritta da Domenico Berti, il quale, secondo usava nel periodo positivistico,