Bibliografia Vichiana II

TOMMASEO

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sione della propria superiorità intellettuale e rigidezza morale. Pure era tale e tanto il postumo fascino che, lungo l’età romantica, il Vico esercitò anche sui cerberi più arcigni della critica da dar luogo in G. B. Vico e il suo secolo a una potenziata ammirazione, simpatia, persino indulgenza ; ch’è poi la ragione per cui quel saggio, come forse il migliore studio critico dello scrittore dalmata, così è indubbiamente il più notevole tra quanti, sino al 1860, se ne siano pubblicati in tutta Europa intorno all’autore della Scienza nuova. Naturalmente, non è lavoro che possa soddisfare del tutto uno studioso odierno, specie quando, oltre che in talune inesattezze di fatto, sulle quali non è il caso d’indugiarsi, ci s’imbatte in errori di valutazione piuttosto gravi. Tale, per esempio, il ritenere che nella Scienza nuova del 1744, molto più che in quelle del 1725 e del 1730, « le idee, sovente mal disposte, mal si reggono insieme e fanno l’una all’altra ingombro > (edizione Quadrelli, p. 8), e anzi che, sebbene nella redazione del 1725 « manchino molti grandi concetti e altri siano accennati appena », il pensiero vi traluce « in più libera luce » che non nella stesura ultima, nella quale « la luce sovente è baglior di baleno, e la contemplazione apparisce a quando a quando fissazione » (p. 94). Tale ancora l’osservare, a proposito delle congetture vichiane intorno al significato della voce « monstrum » nel diritto romano delle origini, che quelle congetture fanno ripensare a ciò che il Vico medesimo aveva notato dell’ « importunità de’ sensi simbolici e delle favole da’ filosofi interpretate per impegno e per capriccio » (pp. 16-17) : sebbene, quasi presago che proprio quelle congetture sarebbero state parzialmente confermate da studi recentissimi, lo stesso Tommaseo non manchi d’aggiungere che, « nel rigettare fin le più strane idee di tale uomo conviene andare a rilento ». Tale, infine, per passare sotto silenzio parecchi altri casi, l’elencare (pp. 58-59) tra gli « sbagli più gravi » del Nostro l’avere negato « la trasmissione della civiltà di popolo in popolo » (v. sopra pp. 436 e 441-42), l’avere combattuto l’antica credenza che « le lingue vengono tutte da una sola » e l’avere disconosciuto, almeno parzialmente, che la « gran legge di tutta la creata natura » suona « unità nell’origine, varietà ne’ mezzi e di nuovo unità nello scopo ». A proposito di codeste tre ultime censure, sarebbe un arrecare ingiuria all’acume del lettore il consacrare molte parole a mostrare che, cattolico, il Tommaseo non poteva non considerare « gravi sbagli » proprio quelle che sono tra le più geniali « discoverte » vichiane. Che anzi, appunto perché cattolico, egli trova altresì (pp. 18-19) che lo « sbaglio maggiore » del Nostro « sta nel principio », ossia nella teoria del postdiluviano imbestiamento della razza umana o erramento ferino, che, « per conciliare Mosé col maiale d’Epicuro » (Orazio), egli pone a fondamento della sua storia della civiltà. Ciò non ostante, e pure conoscendo le accuse di empietà mosse al Vico dai suoi critici cattolici settecenteschi, il Tommaseo, anziché riattaccarsi a costoro, precorre piuttosto i critici cattolici dei giorni nostri nel fare sua la tesi che la filosofia vichiana, lungi dal non conciliarsi col cattolicesimo, è perfettamente consona alle massime di Santa Madre Chiesa. Ma, a dire il vero, nulla prova l’insostenibilità d’una tesi siffatta, quanto gli argomenti o privi di forza o provanti magari l’opposto a cui egli ricorre per sostenerla (v. per esempio, pp. 18 e 25 a proposito del Genesi e p. 25, a proposito del panteismo). Persino la