Bibliografia Vichiana II

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TOMMASEO

proposizione* tutt’altro che ortodossa, che le leggi del corso delle nazioni fissate nella Scienza nuova troverebbero applicazione costante, « fusse anco che dall’eternità nascessero mondi infiniti » (Vico, Opp., IV, capov. 348) viene interpretala dal Tommaseo come un’ « audace parola, perdonabile solo a quest’uomo, all’ingegno grande, alle intenzioni rette, alla fede sommessa. Ardito ingegno, ma credente, e, perché fortemente credente, però felicemente ardito. Non negò, non distrusse, non divise, non mise scandali ; affermò, sopraedificò, sovvenne, congiunse, volò. Dopo i libri ispirati da Dio, non c’è libri che contengano verità più varie del suo e in più feconda unità cospiranti ». Per altro, se da codeste parole non isgorga al certo la prova che la filosofia vichiana non s’allontani dal cammino tracciato dalla Chiesa di Roma, esse non potrebbero mostrare meglio l’ammirazione, la simpatia e, come si diceva, persino l’indulgenza che il Tommaso nutriva pel Nostro. E poiché codesti sentimenti aiutano a vedere bene, e bene sapeva già vedere lo scrittore dalmata sempre che i molteplici suoi preconcetti non si frapponessero tra il suo occhio e 1’ opera da valutare, è affatto naturale che, quando le questioni trattate negli scritti vichiani non fossero tali da risvegliare in lui qualcuno di quei suoi preconcetti, i suoi giudizi, così per la verità della sostanza come per lo splendore della forma, siano tali da colpire anche uno studioso odierno. Per additare soltanto alcuni esempi, si vegga la lode ch’egli tributa alle teorie vichiane su Omero (pp. 12 e 15) e segnatamente su Dante, il quale dice, (p. 9) così « malinconico ingegno e severo », non poteva « al Vico, più che al secolo suo tutto », non sembrar « divino » : al Vico, « ingegno di quella austera famiglia »; al Vico, che, « cercando il principio che unisce le cose umane e le divine, può dire del suo poema, con Dante », che a esso « ha posto mano e cielo e terra » (p. 77). Si vegga la guisa, nuova sino allora nella letteratura vichiana, in cui viene caratterizzata la coscienza morale del Nostro, la quale scrive il lommaseo (p. 21) è «lo specchio della morale e della politica libertà». Si vegga il giudizio quanto mai notevole sugli ancora baroccheggianti Affetti di un disperato (v. sopra pp. 103-4 e 596): nella quale canzone, « ad ora ad ora, come per nubi torbide e acquose, lampeggia alcun verso di quella poesia contemplante e quasi solitaria, della quale ha l’ltalia in ogni età grandi esempi » (p. 9). Voglia inoltre il lettore rivolgere particolare attenzione all’altro giudizio sul De rebus gestis Antonii Caraphaei (p. 70): giudizio tanto più notevole in quanto il Tommaseo fu tra i primi a discorrere di quel libro per conoscenza diretta e assolutamente il primo e, sino al Croce, il solo a saperne scorgere i pregi grandi : laddove persino il Cuoco, per non averlo letto, ne aveva parlato erroneamente come d’ una composizione meramente adulatoria. Come lo scrittore dalmata coglie bene il segno quando nota che in quel lavoro « lo stile procede, sin nel descrivere, pieno d’idee »! o quando soggiunge che « quelle sentenze, che il Nostro attribuisce al Carafa o forinola a proposito di lui, vanno, acciocché più vere appariscano », mutate, così come le mutò lui, Tommaseo (pp. 16062), «in osservazioni generali di storia, in norme di politica dottrinale >! o infine quando dal De rebus e dalle fatiche più propriamente storiche del Vico è indotto a scrivere che « non pochi giudizi e presentimenti di questo intelletto umilmente altèro dimostrano com’egli, vero raggio di divinità, d’un sol tratto si distendesse al passato, ai presente, al futuro »,