Bitef

Interessante la figura di Vincenzella che prende addirittura il suo nome da quello dello stesso padre Carnevale detto in quest’area culturale proprio Vicienzo. Sulla bocca dello stesso popolo infatti, successivamente durante il funerale di Carnevale, ricorre un’espressione illuminante sul carattere magìco-sessuale del Pulcinella padre e sulla dervazìone del nome della sua figlia: Carnevale se chiammava Vecienzo teneva ’e ccoglie d’oro e ’o pesce ’argiento. Il personaggio di don Nicola nella tradizione viene rappresentato come un abate, come un prete o come uno studente di origine calabrese. In questo senso riflette un carattere quasi estraneo a! mondo di Zeza e Pulcinella ed assume caratteristiche migliorative ed augurali sulla fertilità del nuovo anno. Egli stesso dunque futuro padre ma sacerdote e vendicatore di una colpa edìpica sia del Pulcinella che di Vicenzella. Le versioni diverse sia per i testi che per le melodìe conservano in comune ì caratteri arcaici e rituali della rappresentazione. Innanzitutto i personaggi sono interpretati da soli uomini anche per i ruoli femminili. Né qui si può parlare di un semplice travestimento in quanto sìa per Zeza che per Vicenzella gli interpreti del mondo popolare non danno adito a nessun ammiccamento riguardo alla loro mascheratura. Sembra infatti impossibile immaginare che questi ruoli siano sostenuti da uomini tanto l’adesione psicologica è intensa. La stessa gestualità molto accentuata ma culturalmente ritualizzata e perdo vicino ad un tipo di teatro orientale, contribuisce a creare un particolarissimo clima che esclude i caratteri degli interpreti. Se si pensa anche che i costumi sono confezionati dagli stessi esecutori con mesi di anticipo si può anche dedurre quanto ciò contribuisca ad una piena immedesimazione delle parti. Il costume del Pulcinella conserva nella forma e nei colorì caratteri arcaici che si possono rilevare sia dalla forma fallica del cappello multicolore sia dal cromatismo bianco-rosso molto accentuato nell’abito. La Zeza e Vicenzella sovrappongono invece sincreticamente segni e fogge che derivano dalle diverse culture assimilate durante varie epoche. Dai caratteri orientali dei monili e delle pettinature a quelli spagnoli, francesi e borbonici. Né mancano nastri tricolori o addirittura Vicenzelle in minigonna come aderenza costante a quella coscienza della relatà che non è mai assente nel popolo nemmeno nel momento della ritualità. Altri elementi emblematici sono un tridente con un pesce alla punta portato da Vicenzella ed un bastone arma usato dal don Nicola. La molteplicità di tutti gli elementi esposti oltre quelli a livello musicale, gestuale e cerimoniale fanno della Canzone dì Zeza uno dei pezzi più interessanti della nostra tradizione. Se si vuole inquadrare il pezzo poi connesso alla sua funzionalità nel mondo popolare esso à in primo luogo, come abbiamo già detto, un rito rassicuralivo sulla fertilità della prossima primavera. Dal punto di vista psicologico espone e denuncia problematiche comuni dovute a repressione ed insoddisfazione risolte alla fine con l’eliminazione delle colpe addossate ad un padre negativo. Per queste sue componenti la canzone di Zeza è ancora viva ne! periodo carnevalesco a Maddaloni, nel casertano, a Famigliano d’Arco ed in generale nel salernitano e ne! nolano. NeU’lrpìnia ha una forma diversa, l’azione è accompagnata da una banda e termina con una quadriglia generale comandata da un personaggio orientale detto appunto il gran Turco.

L'umorismo

l’Unità, 10 marzo 1974 La prima impressione dì trovarsi in presenza di un gioco teatrale l’avevamo avuta proprio all’inizio dello spettacolo, quando l’intera compagnia si era precipitata nella sala impegnata in una tammurriata, con tanto di pazzariello in testa, a ridere, a sbeffeggiare, a fare ammunina. Poi tutto era rientrato nei ranghi, era cominciato il concerto, quello cui eravamo da tempo abituati. Nunzio Areni, Giuseppe Barra, Eugenio Bennato, Giovanni Mauriello, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere, e davanti a tutti Roberto De Simone, sette nomi ormai fin troppo noti al pubblico, sette volti resi familiari, e non certo a noi. dalle trasmissioni televisive, da una lunga consuetudine di spettacoli in tutti i teatri e teatrini napoletani. Noi che non li ascoltavamo da circa un anno eravamo rimasti un tantino delusi da una certa aria freddino che spirava dal palcoscenico, la grande presa, la grande aggressione cui eravamo abituati, sembrava essersi stemperata in tutta una serie di bravure e virtuosismi più baroccheggìanti che realmente popolari. Ma forse pure quel pubblico fin troppo impellicciato ed elegante che affollava la nuovissima sala del Teatro Cilea. poco ispira va e poco calore era capace di riflettere ai giovani sul palcoscenico. Poi, inattesa, un’altra avvisaglia che qualche cosa di diverso stava per accadere, una Serenata di Pulcinella, che pure ci era ben nota, arricchita da! costume rituale e dalla bella maschera della tradizione popolare. Giuseppe Barra, nuovo Pulcinella dalle doti eccezionali, ne ha riportata la mimica delle antiche stampe, e quella di tanti quotidiani personaggi che oggi ancora possiamo incontrare, nelle strade, naie campagne, un po’ dovunque nel napoletano. Ma la sorpresa, la vera inattesa sorpresa ci era stata riservata per il secondo tempo: La Canzone di Zeza, il famoso redeculuso contratto de matrimonio tra Pullecenella, don Nicola Pacchesicco, Zeza e sua figlia Yicenzella, di cui scrive Benedetto Croce nella sua storia dei teatri di Napoli, la Zeza che ancora oggi si può vedere rappresentata nelle campagne della Campania, in Abruzzo, in Calabria, fino in Sicilia, la Zeza, azione rituale popolare, carnascialesco rito propiziatorio, saluto estremo all’anno che muore, e gioioso benvenuto alla primavera imminente. La tradizione la vuote tutta eseguila da uomini, vestiti da donna a seconda delle necessità, ma senza intenti volgari di superficiali imitazioni, come in un antichissimo rito. E cosi travestiti come è necessario (/ costumi, spiritosi, inventati, eppure nient ’affatto discosti dai suggerimenti popolari, sono di Odette Nicolettì, una mano felice come tanto raramente ci è dato di incontrare sulle scene italiane ) ha avuto inìzio la rappresentazione, tanto più emozionante in quanto, atto sommato inattesa; una rappresentazione da rimanere memo-

cabile nel ricordo di chi vi assisterà, dal palcoscenico, e speriamo tra l’altro di poter rivedere questa Zeza in luoghi dove piu immediato possa essere il rapporto con il publico, salta fuori il gran gioco, la clownerie genettiana, la inconscia drammaticità dì un estinto, e oggi cosi ben ritrovato e rappresentato di giovani della Nuova Compagnia di Canto Popolare. E’ teatro del migliori, che non si abbandona, e pericolo enorme sarebbe, al facili effetti. Un teatro che rimane sempre violento, aggressivo, come proprio per una sacra rappresentazione. Il divertimento enorme, l'umorismo che ne scaturisce naturale e immediato, è un umorismo solido di buona lega, che affonda le radici nei ghigni groteschi e a volte drammatici di un popolo complesso come quello meridionale. Il rito è leggibile, nelle sue multiformi interpretazioni, e nelle molteplici stratificazioni attraverso una storia di secoli. La gestualità, pietra angolare di un tale tipo di rapresentazione, è contr oliatissima e ricca dì suggerimenti e di riferimenti, innanzitutto quelli popolari di ogni giorno, dei vicoli e dele campagne, poi quelli delle stampe piu antiche e preziose, e quelli del teatri dì marionette, i pupari di antichissima tradizione popolare. Tutto riassunto, fuso in un unico discorso, rìelaborato in forma critica e riproposto per l’inìzio di un serio discorso sulla rappresentazione popolare che speriamo di vedere ancor più sviluppato nel tempo. G. B.

Napolitano

Il mattino, 17 givgno 1972 I sei studenti napoletani (uno di essi studia li flauto al conservatorio, un altro fisica all’università e a casa lo chitarra, un altro ancora è figlio d'arte e si esprime cantando, come del resto, i suoi compagni ( Fausta, nelle ore Übere, cerca di insegnare musica ) non si pongono traguardi concerti. Per loro è importante non essere fraintesi, e collaborare col maestro Roberto De Simone, ai ai quale si debbono la scelta e la trascrizione dei vari pezzi che ascolteremo a Spoleto. Qualcuno crede che il nostro repertorio sta fatto da canzonette napoletane mi dice Mannello confondendo queste cot canto popolare, che e tutt’altra cosa. Noi cerchiamo di fare musica seria aggiunge Bennato o il nostro repertorio non accoglierebbe villanelle del secolo XVI e canti che risalgono al sei e al settecento, anche al quatirocento, fino alla «Rumba degli scugnizzi» composta da Viviani nel 1932 per una sua commedia. Fare musica seria non significa soltanto rispolverare una tradizione antica e nobilissima, ma riportare al modulo originale un materiale divenuto, «spurio», nel tempo, e ridare ad esso l'originale dignità.

Silvana Gaudio

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