Bibliografia Vichiana I

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COLERIDGE

pel suo « terzo auttore » (Opp., V, 26) ammirazione affine all’alta reverenza che egli, Coleridge, nutriva per 1’ « anglico Platone »; memore altresì dei frequenti parallelismi tra gli aforismi del Novum organum e le Degnità vichiane; avrebbe voluto dare rilievo a tutto ciò nell’introduzione e nelle note che si proponeva d’aggiungere a quella traduzione. Ma, nella fretta della partenza, gli capitò di portare con sé a Ramsgate, invece che uno dei tre volumi prestatigli dal Prati, uno del Blackwood. Per allora, dunque, non potè attuare il proposito, e più tardi lasciò in asso anche la traduzione, che il Montagu dovè affidare, in cambio, a Guglielmo Wood. L’B maggio 1826 insisteva nuovamente presso il Prati perché si risolvesse una buona volta a dare una serie di schizzi sul «più notevole rivoluzionario del pensiero». Anzi soggiungeva perché il Prati, invece d’attendere alle biografie di Giordano Bruno e di Cornelio Agrippa, che il Coleridge stesso gli aveva suggerite in un primo momento, non poneva insieme lavoro di ben altra attrattiva un succoso volumetto sulla vita e la grande opera del Vico ? E, se incontrava difficoltà a comporlo in inglese, perché non s’avvaleva del1’ aiuto che egli sarebbe stato felice di prestargli ? Senonché, scottato per avere scritto una vita dello Schiller e non averla potuta pubblicare per essere uscita nel frattempo quella del Carlyle, il Prati neppure questa volta volle farne nulla. Il 22 aprile 1828 partecipava in casa del Sotheby a un pranzo, al quale erano stati invitati altresì Walter Scott, Giacomo Fenimore Cooper, il Lockhart e un amico dello Scott, ossia il Morrit. Terminato il desinare e ritiratesi le signore, il Coleridge parlò per più di un’ora sulle teorie omeriche del Vico, interrotto e contraddetto parecchie volte dal Morrit e dal Sotheby, dei quali l’uno aveva di recente visitato con occhio di archeologo la Troade, l’altro andava allora traducendo in inglese 1 'lliade e l’ Odissea, e tutt’e due credevano fermamente alla monogenesi dei due poemi. Il 12 maggio osservava, vicheggiando e cose analoghe ripeteva il 9 luglio 1832 che Omero, anziché nome specifico di un « particolar uomo in natura », era nome generico dei cantori delle varie rapsodie dell’lliade; ragione per cui credeva all’esistenza di «un Omero e di venti altri ancora ». A codesto proposito l’anzidetto Enrico Nelson-Coleridge, nel pubblicare e chiosare codesto e altri detti memorabili dello zio-