Bibliografia Vichiana II

il Cariyle. Circa il Coleridge e il Grote ? basterà rimandare a quanto se ne è detto sopra alle pp. 518-23 e 576-77. Per contrario, giova fermarsi alquanto sullo Shelley e aggiungere qualche parola al cenno troppo fugace consacrato sopra (p. 723) al Carìyle. Bensì, per quanto concerne lo Shelley, anziché al Faizon, sarà meglio attingere direttamente alla shelleyana Difesa della poesia nella versione del Cecchi (sopra, p. 801), nonché alla citata conferenza consacrata a codesto famoso opuscolo dal Croce (sopra, p. 765). Già trentanni prima dello Shelley, Federico Schiller (v. sopra pp. 37475) aveva chiesto alla poesia e all’arte di venire in soccorso all’agitata secietà umana, balzata dall’ estremo della servitù all’ estremo dell’anarchia. Ragioni analoghe indussero lo Shelley nel 1821 a scendere in campo contro l’opinione, non soltanto sostenuta dallo Hegel, ma affiorata allora un po’ dappertutto, che nei periodi di civiltà raffinata (correlativi, come avrebbe detto il Vico, alla « mente tutta spiegata ») non vi sia posto per la poesia. Al contrario, secondo lo Shelley, proprio la poesia fonte perenne di ogni vita intellettuale, morale e civile è necessaria anche e soprattutto nei tempi in cui si comincia a intravvedere il preponderare del principio egoistico e meccanico, e più che mai quando ali’accumularsi delle cognizioni morali, storiche, politiche ed economiche, ch’è proprio dei tempi di cultura raffinata, non corrisponde un analogo potenziamento della fantasia e del congiunto impeto generoso, ai quali soltanto riesce di convertire quelle cognizioni astratte in opere feconde di bene. Chi abbia pratica della Scienza nuova s’avvede già della somiglianza che codesta tesi presenta con taluni capisaldi della « sapienza poetica » vichiana. Somiglianza che diventa ancora più spiccata in taluni sviluppi particolari. E invero nell’asserire, per esempio, che l’uomo primitivo 0 selvaggio è simile al fanciullo (traduzione Cecchi, p. 49) ; che nella giovinezza del mondo « gli uomini danzano, cantano ed imitano gli obietti naturali, osservando in queste azioni, come in tutte le altre, un certo ritmo e ordine » (p. 51) ; che il linguaggio dell’uomo primitivo, come quello dei poeti, è « essenzialmente metaforico » (p. 52) ; che nell’infanzia della società « ogni autore è un poeta, perché il linguaggio stesso è poesia » (p. 53) ; che i poeti sono non solo gli autori del linguaggio e di tutte le cosiddette arti belle, ma altresì « gl’ istitutori delle leggi, i fondatori della società civile, gl’inventori delle arti di vita, 1 maestri che traggono ad una tal comunione di bellezza e di verità quella parziale visione della forza del mondo invisibile che è chiamata religione » (pp. 53-54) ; che i poeti furono detti, « nelle prime epoche del mondo, legislatori e profeti », ossia vati, ecc. ecc. ecc. lo Shelley, probabilmente senz’ avvedersene (giacché ritengo che non avesse notizia, per lo meno diretta, dell’opera vichiana), non fa se non ripe tere, con qualche lieve variante di pensiero e di parole, taluni degli aforismi disseminati a piene mani nella Scienza nuova. Di certo, egli è agli antipodi del Vico quando afferma che quella tra poeti e filosofi è distinzione ormai superata (p. 59), e che Dante,

928

FALZON - SHELLEY