Bibliografia Vichiana II

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GIOBERTI

Vincenzo Gioberti (1801-52). Ed effettivamente, che il Nostro fosse tra gli scrittori maggiormente studiati da lui, si tocca con mano attraverso, per non dire altro, le innumeri volte che in molteplici scritti egli rammenta quel suo autore preferito. Ma, poiché l’amore, pure aiutando a vedere bene, non basta a fare intendere compiutamente un filosofo c a convertire le sue dottrine in nutrimento vitale del proprio pensiero, è da soggiungere che a fondo del pensiero vichiano il Gioberti non giunse mai e che il vantaggio tratto da lui dalla Scienza nuova fu relativamente esiguo. Circa il primo asserto, non essendo questo il luogo per l’ampia documentazione che se ne potrebbe esibire, il lettore vorrà contentarsi di un esempio solo. Cattolico in ciò tutto d’un pezzo, il filosofo piemontese ritiene inammissibile che « gli uomini potessero ridursi a quel chimerico stato d’insociabilità e di barbarie, di cui, senza pensare alla Bibbia, di cui non si curano, parlano certi filosofi moderni ». Inammissibile dunque, come logica vorrebbe, il vichiano erramento ferino. Invece, no. Il Gioberti fa sua « 1’ opinione seguita dal Vico », cioè che « dopo della divisione postdiluviana, dovettero le formate società imbarbarire e ridursi a uno stato barbaro e pressocché insociale ». Naturalmente, logica vorrebbe che, dopo avere fatto suo codesto misero espediente escogitato dal Vico per tentare di conciliare, senza riuscirvi, le sue dottrine col racconto biblico, il Gioberti trovasse legittimi tutti i corollari che il Nostro trae da codesto sia pure soltanto postdiluviano erramento ferino. E cioè anche il filosofo piemontese, al pari di quello napoletano, avrebbe dovuto ammettere che l’incivilimento (o, sia pure, il rincivilimento) del genere umano e, con esso, il sorgere (o, sia pure, il risorgere) del linguaggio e della poesia, del sentimento religioso e del mito, del pudore e del senso morale, del patriarcato e delle varie forme di convivenza civile siano tutte cose svoltesi autoctonamente, tutte creazioni della « mente umana », immune, in codesto atto creativo, da qualsiasi influsso estrinseco, divino o umano che sia. Invece, anche questa volta, no. Giacché il Gioberti si fa reciso affermatore proprio delle due proposizioni delle quali il Vico s’era fatto negatore non meno reciso : che « la natura corrotta dell’uomo non basta a dargli I’incivilimento o ricuperarlo perduto », e che dal popolo ebraico, « che lo ricevette da Dio e che lo comunicò quindi alle altre nazioni del mondo », si deve « ripeter 1’ origine di ogni letteratura, scienza, arte, governo, ben regolata azione ». Peggio : per lui, tutti gli errori del Vico si riducono a un solo, ma colossale : all’avere enunciato che « il diritto naturai delle genti », ossia la civiltà, nacque autoctonamente tra le nazioni « senza prender esemplo l’una dall’altra ». ( Opp ., IV, capov. 311). Conseguenza logica di codesto considerare errore colossale quella che, per noi, è verità tanto originale quanto fulgida, sarebbe dovuta essere che la così unitaria e sistematica Scienza nuova , fondata tutta su quel principio, sia da ritenere erronea dalla prima all’ultima parola. Per contrario, anche questa volta no, dal momento che il Gioberti scrive che, « confutato quell’errore, rimarrebbe verità tutto il rimanente » dell’opera vichiana. Per passare al secondo degli asserti enunciati sopra, appunto perché